
Forme particolarmente intrecciate
Ci sono seminari in cui si torna con qualcosa in più nella borsa. Si torna sempre con tanta roba, ma questa è stata una di quelle volte che per me sono un po’ più speciali delle altre.
Intanto è stato bello scoprire alla fine dei due giorni che siamo stati più di 70 persone: è sempre piacevole salire sul tatami, guardarsi intorno e avere la conferma che ci siamo e che abbiamo voglia di esserci. La meravigliosa ospitalità dei ragazzi di Gradisca è stata onorata.
“La forma è l’espressione di una relazione.” Ha detto il Doshu. Bella frase. Nel caso dell’aikido la relazione con gli altri, con lo spazio, ma anche e soprattutto con sé stessi.
La forma non è semplicemente un’immagine che si acquisisce e ci si illude di replicare, non è un’informazione da processare per il tramite del cervello. La forma (sia essa quella di un test di ki oppure di una tecnica) è un’immagine che si scopre, si vive, di cui si deve fare esperienza personalmente.
In questo senso il test rimane uno strumento potente, perché permette davvero di mettere in luce ciò che è nascosto, e sono certo che, una volta trovata la “propria” forma, mente e corpo lavorano davvero completamente insieme.
Nella tradizione giapponese, l’estetica è profondamente condizionata dal “vuoto”, più che dal “pieno”. Nella calligrafia, sono gli spazi vuoti a determinare la bellezza del tratto, perché sono loro a creare la relazione tra le diverse parti di un ideogramma; nell’aikido, è lo spazio vuoto tra me e ukemi ad essere importante, perché sarà colmato dal suo attacco.
Nel vuoto nasce il pieno, l’assenza è generativa, una scomparsa dà vita a cose nuove: “the sound of silence”.
Ripenso a Beppe, al silenzio unico che raccontava di sentire a Uspallata, sulle Ande Argentine, dove andava a fare seminari dall’amico Renato.

La strada per Uspallata [fonte Wikipedia]
Il Doshu ci ha ricordato infatti che l’aikido, a differenza di discipline come la pittura o la musica, ha la caratteristica di poter estendere la propria dimensione creativa al di là di uno spazio artistico avulso dalla vita personale, ma può essere praticato costantemente nel quotidiano.
Provare a “vivere come artisti” quindi, qualsiasi lavoro si faccia.
E non c’è da stare tanto su a pensare a come fare a farlo.
Mi torna in mente il titolo del libro più famoso di Jerry Rubin, che il mio Maestro mi fece conoscere anni fa: “DO IT! Scenarios of a revolution”.