C’è questa storia di diversi anni fa. Un praticante stava sostenendo con il Maestro Yoshigasaki l’esame jokyu, che a quel tempo precedeva quello di primo dan. Arrivato al momento del taiso, sull’esercizio delle gambe il Maestro lo fermò, dicendo che la posizione era sbagliata; per dare evidenza alle proprie parole si alzò e andò a fare il test. Prese il tallone, ma quello rimase inchiodato a terra. Il Maestro provò a tirare un po’ più forte, poi valutò che sarebbe disonesto andare avanti e fece proseguire l’esame.
Trovo questo aneddoto piuttosto interessante. La conclusione potrebbe essere semplice: anche i maestri sbagliano e magari la posizione non era poi così errata come era sembrato ad una prima occhiata. Forse sì e forse no.
Sin dall’inizio della pratica, il mantra che mi è stato salmodiato era: “forma corretta uguale test superato” e viceversa. In questo modo il test diventava la cartina di tornasole definitiva per verificare la correttezza delle posizioni assunte nella pratica del ki e dell’aikido.
Nel tempo però, mi sono reso conto che la faccenda è un po’ più complessa.
Talvolta capita che in palestra vengano persone provenienti da altre discipline, ad esempio yoga, danza o altre arti marziali. Spesso al momento del primo test vanno via come fuscelli al vento. Potrei dubitare della bontà della loro forma? Difficile. Spesso è migliore di quella di più di una cintura nera presente nel dojo!
La differenza, lo sa chiunque abbia fatto una almeno lezione di ki aikido, risiede nel lavoro della mente. Il test serve a verificare che mente e corpo siano insieme (“unificati”, si sarebbe detto una volta) ovvero che la mente sia presente al corpo e di conseguenza lo “aiuti” a rimanere stabile. Il test si occupa di qualcosa di profondo e impossibile da vedere a occhio nudo, la parte sommersa dell’iceberg; quella che rimane al di sotto della forma: la “sub-stantia” appunto.
Anche una persona con un pessimo atteggiamento posturale, con un minimo di attenzione, può superare i test . Fine della storia.
Qui si apre però più di una questione.
Innanzitutto: la pratica del ki aikido può realmente aiutare un praticante correggere un atteggiamento corporeo scorretto? Troppo concentrata sulla mente, la pratica non rischia di non lavorare sufficientemente sull’elemento “fisico”? Talvolta sembra proprio che sia così. Da anni il Maestro ha introdotto esercizi utili a migliorare e correggere la postura, primo fra tutti la posizione con le braccia rivolte verso l’alto e poi so-tai-ho, ma ancora ho la sensazione che la strada da percorrere sia tanta.
Poi c’è l’aspetto didattico. Mi è stato insegnato che il test permette al maestro di fornire informazioni all’allievo senza bisogno di parole. In realtà, lo sa qualsiasi insegnante, fare i test non basta. “Stai più dritto”, “rilassa le braccia”… ogni maestro, per quanto non voglia condizionare i propri allievi, finisce per essere costretto a dispensare correzioni e consigli.
Del resto, prima di assomigliare a sé stesso, uno studente deve sempre assomigliare a qualcun altro.
E infine l’ultimo problema. Prima ho detto che se la mente è presente al corpo lo aiuta a superare il test. Ma alla fine di tutto, in questo si traduce la pratica? Nel resistere a una spinta? La risposta sembra scontata, ma qualsiasi praticante si è trovato a lavorare sul divenire “inamovibile” al mero scopo di superare o meno il test. Facendo quindi venire meno tutto il significato della pratica di pace e anzi facendola precipitare in una logica di conflitto tra muoversi e non muoversi.
Per quanto possa sembrare una bestemmia in un blog dedicato al ki aikido, la qualità e il livello di un praticante non possono misurarsi esclusivamente sulla sua capacità di restare immobile.
Detto questo, il test, come metodo di lavoro, potrebbe apparire sopravvalutato. E invece no. Perché rimane uno strumento di conoscenza unico e formidabile.
Perché se è vero che non risolve completamente nessuno dei fronti che sopra ho descritto, offre la possibilità, attraverso un gesto semplicissimo, di lavorare contemporaneamente su ognuno dei tre.
Subire un test, innanzitutto, consente di realizzare immediatamente la relazione tra le diverse parti del proprio corpo e in alcuni casi di prendere immediatamente coscienza di una posizione sbagliata. E questa informazione viene fornita realmente senza l’uso di alcuna parola; spesso, un test non superato, è una vera e propria epifania, un’illuminazione che si è felici di sperimentare.
Infine, contestualmente ai primi due elementi, il test ci permette di avere certezza del “qui e ora” della nostra mente. Del suo essere presente anche nell’esecuzione di un semplice gesto. E questo rimane un valore enorme, a patto che la presenza nel gesto o nella posizione sia finalizzata a rendere questi ultimi liberi e naturali. E non vincolati al semplice scopo di superare una prova, qualsiasi essa sia.