Old habits die hard, cioè le vecchie abitudini sono dure a morire, come cantava Mick Jagger. Intendiamoci, alcune abitudini sono piacevoli, come tornare nelle Marche per un seminario di Aikido fra amici, altre possono diventare vizi dei quali ci si potrà liberare solo con molta fatica, ma andiamo con ordine.
Sabato si è tenuto a Fossombrone il seminario del maestro Davide Rizzi.
Ogni volta che, a discapito di buon senso e tempo libero, macino chilometri per passare qualche ora su un tatami cerco di capire cosa sono riuscito a mettere nella borsa che ho riportato a casa. In cucina si dice che quando lo chef è all’opera gli apprendisti devono cercare di carpirne il mestiere come si ruba il fumo alle schiacciate (o alle candele, a seconda delle varianti regionali). Analogamente uno stage di Aikido è per sua natura concentrato e pertanto non si ha la possibilità di approfondire una vasta gamma di argomenti come si fa nei mesi di lezione in dojo, al contrario però esso può fornire intuizioni e spunti su cui andare a lavorare con pazienza e metodo nei mesi seguenti.
Pertanto, bando alle ciance, cosa mi sono portato a casa stavolta?
Se il Davide praticante lo conoscevo ormai da anni, non avevo ancora avuto l’occasione di partecipare ad una sua lezione. Quest’esperienza mi ha confermato che il suo è un Aikido molto attento ai dettagli, ma direi che è andata molto oltre, in quanto mi ha proposto un’immagine nitida su un modo, quasi un’attitudine, di perfezionare il singolo dettaglio e di lavorarci sopra.
Partiamo da una frase che mi ha colpito molto e che, tanto per mettere subito le cose in chiaro, è stata detta durante la prima parte della lezione mattutina: “Se vi rendete conto che nella pratica avete preso un’abitudine, cambiatela!”. Un’abitudine è un modo di mettersi comodi (e come vuole la tradizione marziale giapponese “la comodità uccide”) ma soprattutto l’abitudine rischia di radicare dei comportamenti e di renderli permanenti, nel bene ma molto più spesso nel male, limitando in questo modo le capacità e le possibilità di un praticante.
L’idea di bandire la ripetizione meccanica e fine a se stessa è estremamente funzionale ad un altro aspetto, ovvero per evitare che la pratica diventi un inutile ciclo di gesti sempre uguali a se stessi c’è la necessità di insistere sul dettaglio e quindi sulla ricerca del miglioramento in ogni gesto. Questo concetto durante il seminario è stato portato avanti in modo metodico, costante, quasi ossessivo. Occorre lavorare sul problema, su ciò che nella tecnica non funziona o che è migliorabile, valutandone gli effetti ad ogni nuovo tentativo. In questo modo le ripetizioni vengono usate non per consolidare una pratica rassicurante ma erronea, bensì per raffinare, migliorare e pulire.
Trovo che in questo lavoro ci sia il nocciolo di ogni insegnamento marziale, ma su questo versante ho trovato anche due aspetti molto interessanti che credo in molti possano ritrovare nella propria vita quotidiana o lavorativa. Il primo è l’idea del miglioramento continuo che un lavoro di questo genere inevitabilmente si porta dietro, permettendo così una pratica sempre nuova e quindi duratura nel tempo. La seconda è che, come logica conseguenza, subentra la necessità di dover gestire questo cambiamento autonomamente, in altre parole diventa necessario, soprattutto a certi livelli, riuscire ad individuare le aree su cui lavorare, dandosi obiettivi fuori dalla propria comfort zone e perseguendoli come un cane da tartufi (ottimi e abbondanti nella zona del Montefeltro peraltro) anche quando se ne sente solo l’odore.
Un’ultima parola vorrei spenderla sull’ottima organizzazione del seminario, come ho detto in apertura di articolo a Fossombrone ci sono degli amici, ma la cosa che più mi ha fatto piacere è stato vedere il coinvolgimento di un gruppo di persone tutto sommato così eterogeneo dal punto di vista geografico (Marche, Emilia e Toscana) in un’intera giornata sul tatami. Sono fermamente convinto che la nostra pratica potrà andare avanti solo se si riusciranno a mantenere quelle relazioni tra le persone che permettano alle piccole realtà di fare rete e di venire fuori con iniziative comuni.