Questo mese di settembre ho deciso di approfittare di un paio di occasioni che mi hanno tenuto in Toscana qualche sera in più del solito per andare a trovare i miei compadres di Ki No Nagare nelle loro tane di Arezzo e Firenze e seguire le loro lezioni. Era tanto tempo che avevo voglia di farlo.
La prima tappa è stata il Ki Dojo, un venerdì sera che faceva lezione Paolo. E’ stata una visita segnata da una curiosa coincidenza. Proprio quella stessa mattina infatti, cercando una vecchia e-mail di lavoro, ho trovato uno scambio con Beppe risalente all’epoca in cui stavo preparando il terzo dan.
Uno scambio duro: per me era un periodo difficile e certo non stavo dando il meglio di me sul fronte relazionale; Beppe dal canto suo muoveva critiche pesanti al mio modo di preparare l’esame e in generale al mio approccio alla pratica.

Il sorriso sornione di Beppe
Mentre lo rileggevo mi sono tornate insistenti alla mente le parole che il Maestro Yoshigasaki ha ripetuto più di una volta: «L’aikido non è la cosa più importante».
Paolo se l’è cavata alla grande e la serata è scorsa via piacevolmente. Mentre praticavo sono finito spesso a incrociare il volto sorridente di Beppe alla parete. E quelle parole mi tornavano in testa. «L’aikido non è la cosa più importante…lo so…però è bellissimo, maestro. Come si fa? Del resto tu non ne hai mai negato la bellezza, anzi! Lo vedi, io adoro praticarlo!»
Già, io adoro il ki-aikido, fin da quando ho messo piede per la prima volta al Ki Dojo. Ma il mio difetto peggiore, in tutti questi anni, è stato proprio quello di averlo studiato con grande passione, ma di essermi troppo spesso dedicato alla pratica “per la pratica”, e questo talvolta è andato a discapito della mia naturalezza, sia sul tatami che fuori.
Il ki-aikido non è una disciplina fine a sé stessa. E’ un’arte che attraverso la relazione con l’altro permette a chi la pratica di entrare in contatto con la propria dimensione più interiore. Il Maestro forse direbbe che fa assomigliare la “forma mentale” del praticante a quella “fisica”. Il risultato è che fornisce strumenti utili ad osservare la propria vita e a viverla più liberamente.
Ecco. Forse il mio maestro, con la rabbia che talvolta accompagna il molto affetto, desiderava proprio questo. Che io fossi naturalmente me stesso.
Fuori dalla materassina tutto questo si traduce in naturalezza appunto e “umanità”. Non riesco trovare un termine differente.

Per ingannare il tempo a Bosco Gurin
In tal senso ho trovato emblematiche le foto del seminario di Sensei a Bosco Gurin che Francesco Ingemi ha pubblicato su Facebook alcuni giorni fa (visibili qui) alcuni giorni fa. Perché esprimono proprio questo: umanità.
Sono ritratti di praticanti, pause tra una lezione e l’altra, momenti di svago, una gita in montagna. Neppure una tecnica. Eppure rappresentano al meglio quello che è il nostro lavoro.
Ma attenzione, non penso che si debba andare al dojo come se fosse il circolino dove passare il tempo con dei vecchi amici! Sono infatti fermamente convinto che lo spazio fuori dal tatami sia luminoso quando è rischiarato da quello che si fa al suo interno.
Perciò credo sia indispensabile praticare con passione e dedizione; dopodiché il nostro aikido è qualcosa di troppo bello e importante per rimanere confinato tra le pareti del dojo. Il vero salto di qualità è portarselo dietro dopo il saluto. “Ki in daily life” o “aikido in daily life” per me significano questo.
Accompagnato da questi pensieri un lunedì sera dopo il lavoro mi sono avviato in macchina verso Arezzo. Destinazione Daruma Dojo).
C’eravamo soltanto io e Andrea (alle volte si sa, capita). Ed eravamo stanchissimi: lui si era alzato alle 5.30 e veniva da un fine settimana in montagna. Io alle 6.30 e la notte precedente avevo dormito poco e male.
Ci siamo fatti delle chiacchiere e poi abbiamo praticato per circa un’ora. Concentrati, ci siamo aiutati vicendevolmente ognuno sui propri dubbi o sulle tecniche che voleva approfondire.

End of the class
Come sempre è stato bello condividere le esperienze. E’ stata un’ora ricca, come avrebbe detto Beppe, e soprattutto vera, senza seghe di alcun tipo. Niente «Aspetta che ti faccio vedere…» o «No, non è così. Il Maestro la spiega diversamente…» Solo lavoro.
Alle 22.30 eravamo talmente cotti che siamo filati a dormire senza neppure prenderci una birretta.
Davanti allo sportello della macchina però ci siamo ribaditi l’ansia di condivisione che abbiamo, la voglia di uscire dai nostri spazi più consueti. Ci siamo quindi ripromessi di riprendere una vecchia idea lanciata tempo fa da Paolo, quella di girare per i vari dojo della Toscana e dell’Emilia (magari pure dell’Italia), “raccontandoli” come in una sorta di diario di viaggio.
Secondo la leggenda, i samurai dopo anni di pratica nel dojo intraprendevano il Musha Shugyo, ovvero un viaggio di addestramento alla ricerca dell’illuminazione e dell’essenza dell’arte della spada. Noi non abbiamo scopi così elevati, ma solo una gran voglia di confronto e di narrazione di ciò che è il nostro mondo.
Il tempo è poco e il sacrificio tanto, ma se la nostra è l’arte della relazione, che relazione sia per davvero.
E’ tempo di mettersi in viaggio!