Per il titolo di questo articolo sono debitore al mio compadre Andrea che fece questa battuta ad aprile durante il seminario del Doshu a Vercelli. I mesi passano, ma il tema rimane lo stesso e non è l’unico che ritorna.
Uno dei capitoli del libro di Sensei “Viaggio interiore di uno straniero”, pubblicato nel lontano 2002, si intitola infatti proprio “Cosa fare o come farlo”.
Se noi intendiamo le tecniche di aikido come un unico movimento, che nasce dall’attacco e termina con la caduta o l’immobilizzazione, nella visione di Sensei ci stiamo concentrando sul “come”. “Come fare a far cadere ukemi?” “Come fare per portarlo a terra per immobilizzarlo?”
Ma se intendiamo ogni tecnica come una sequenza di “atti”, ovvero di azioni poste in essere per anticipare e fronteggiare i rischi di attacchi diversi che possono accadere durante l’esecuzione della tecnica stessa, allora ci stiamo concentrando sul “cosa”.
E in quanti atti può essere suddivisa una tecnica? Fondamentalmente tre, secondo l’antica intuizione del maestro Tohei: il primo, quello che crea una situazione di protezione nei confronti di ukemi; il secondo, quello che previene il rischio eventuale di un successivo attacco; il terzo, quello che cambia la mente di “ukemi”, attraverso la caduta o l’immobilizzazione.
Tre atti. Come un’opera lirica o teatrale.
Vi è però un presupposto indispensabile per l’esecuzione di ciascun atto. Quello di avere un istante di tempo in cui riuscire a percepire in maniera chiara ciò che sta per accadere. Un momento di sospensione nel quale mente e corpo sono completamente insieme.
Qui ci viene in soccorso la pratica del ki. Assumere una posizione e mantenerla quando subiamo un test o facciamo un auto-test (chiudere gli occhi e andare su e giù in punta di piedi) ci educa a percepire liberi dai pensieri. In quel momento infatti, non è possibile pensare, ma solo percepire “tutto insieme”.
Perché se è vero, come dice il Maestro, che la definizione di “mente” è “la mente muove il corpo”, personalmente penso che la mente è anche ciò che è in grado di tenerlo fermo il corpo.
Le implicazioni fuori dal tatami sono ovviamente notevoli. In un tempo come il nostro, fatto di tutorial su youtube, di informazioni superficiali, di comportamenti spesso generati dall’abitudine o dalla paura, possiamo chiudere gli occhi un istante, andare su e giù in punta di piedi e chiederci: che cosa sto facendo? Che cosa so realmente della situazione in cui mi trovo? Che cosa sto per fare? E soprattutto, perché?
Beh, io credo che sia un approccio profondamente marziale e creativo alla propria vita.
Un ringraziamento anche alla sempre squisita ospitalità di Donato e della sua famiglia e a Francesco per la foto.