Qualche settimana fa ho letto su Facebook dei post aventi ad oggetto l’annoso tema del rapporto tra aikido e sport e tra aikido e competizione in genere. L’argomento è uno di quelli che periodicamente risalta fuori e suscita reazioni opposte. Più o meno sempre le stesse. Da una parte ci sono i detrattori che liquidano la faccenda in un modo quasi ideologico (“l’aikido è un budo di tipo tradizionale”, “l’aikido è arte di pace e pertanto rifugge la competizione”, ecc.). Dall’altra coloro ai quali non dispiacerebbe una dinamica sportiva, un po’ per rendere l’aikido più appealing, specialmente agli occhi dei più giovani e un po’ per trovare finalmente una modalità oggettiva di valutazione della qualità tecnica dei praticanti.
Non trovandomi a mio agio su nessuna delle due posizioni ho sempre pensato che la ragione della mia istintiva diffidenza nei confronti di un aikido sportivo nascesse da una valutazione eminentemente pratica, ovvero che per la loro natura aikido e sport non potessero funzionare insieme. In realtà, analizzando più a fondo la questione, mi sono reso conto che non è proprio così.
La prima e più famosa scuola di aikido sportivo è stata quella fondata da Kenji Tomiki. Tomiki era stato uno degli allievi di Ueshiba Morihei del periodo di prima della guerra, ma era stato anche allievo di Jigoro Kano arrivando a diventare un grande maestro di judo. Tanto per intenderci, uno dei sette kata “ufficiali” del judo, il “Kodokan Goshin Jutsu (link)”, lo vede tra i suoi creatori.Tomiki è stato un artista marziale eccezionale e sulla scorta dell’esperienza nel judo, ha dedicato gran parte della sua vita a sviluppare una forma fisica che permettesse la competizione sportiva nell’aikido, definendo 17 tecniche di base (randori no kata) da utilizzarsi nel combattimento sportivo. Le tecniche selezionate comprendono atemi, prese e proiezioni. Nell’operare questa sintesi, Tomiki eliminò tutti quei movimenti che riteneva non funzionali al confronto sportivo, lasciandoli invece all’interno di una serie di kata (koryu no kata) che insieme al randori costituiscono il cuore della didattica del suo stile, lo Shodokhan o Tomiki Aikido.

Nello Shodokan anche i kata sono oggetto di gara, in maniera analoga a quanto avviene nel karate e nel judo e, per l’appunto, nelle Taigi competition del ki aikido.
Le Taigi competition sono gare che la Ki Society ha introdotto ufficialmente nel 1996 e si basano sull’esecuzione di sequenze di tecniche fissate, i taigi appunto, la cui esecuzione viene sottoposta alla valutazione di una giuria che assegna dei punteggi sulla base di criteri preordinati.
I criteri di giudizio delle Taigi competition sono molto articolati, ma in generale sono mirati a valutare l’equilibrio, il ritmo, la bellezza e l’ampiezza dell’esecuzione delle tecniche. In una parola il ki che gli “atleti” riescono a esprimere.
Ora, possiamo entrare nel merito dell’efficacia in un combattimento sportivo delle 17 tecniche di Tomiki oppure dubitare del fatto che sia possibile valutare con un punteggio il livello di ki. O anche che sia produttivo imbrigliare la pratica all’interno di regole prefissate, ma il punto è che la competizione sportiva in aikido È possibile.
Come sempre a fare la differenza è l’intenzione o lo scopo del praticante.
Lo scopo è confrontarsi, mettere alla prova le proprie capacità, prevalere, vincere? Trovare un metro di giudizio oggettivo della propria abilità e di quella altrui? Bene. L’aikido offre, al pari delle altre arti marziali, gli strumenti adeguati a soddisfare queste aspettative
Ma quando molti anni fa mi presentai per la prima volta al Ki Dojo a chiedere informazioni, sul volantino che davano in segreteria trovai una frase che mi colpì molto: “l’aikido non insegna a vincere, bensì a non perdere”. Per uno come me, sbarbato mingherlino che aveva già tristemente maturato la convinzione che vincere, nello sport come in altro, non rientrasse nelle sue prerogative, almeno “non perdere” diventava una prospettiva allettante!!!
Scherzi a parte, quella frase mi è rimasta dentro.
Noi chiamiamo l’aikido “arte di vita” e la vita si sa, è tutto fuorché oggettiva. Non ci sono regole certe (oppure vengono continuamente sovvertite), generalmente non vince il migliore o il più capace e il successo comporta spesso più grane che gioie.
I giovani amano competere e vincere. E’ normale. Percepiscono la loro forza e hanno la giusta aspettativa che essa possa incidere sulla realtà e condurli a realizzare i loro obiettivi. Mi interrogo su come poter trasmettere la saggezza del nostro modo di vedere l’aikido, senza snaturarlo ma gratificando al tempo stesso la loro natura. D’altra parte penso anche a quei bambini che praticano discipline agonistiche sin da piccoli, allo stress che talvolta devono sopportare, ai mal di pancia e alle notti insonni prima di una gara e mi chiedo quanto sia proficuo sollecitare certe corde sin dalla più tenera età. La competizione ha davvero un valore educativo?
Io credo che la dimensione privilegiata dell’aikido per i più giovani (e non solo) sia quella del gioco. Un gioco senza vincitori né vinti, nel quale coesistano competizione e cooperazione, un pizzico di tensione e tanta serenità.
E credo poi che si debba modificare la controparte del confronto, spostandolo dall’altro a sé stessi. Masakatsu Agatsu. “La vera vittoria è la vittoria su sé stessi” ha detto Ueshiba Morihei. Anche se mi viene da pensare che la logica del “non perdere” si dovrebbe ben applicare anche al conflitto interiore.

In fondo non ho più voglia di combattere con nessuno, anche con me stesso. Ma questa è un’altra faccenda.
Un esempio di incontro del Tomiki aikido: https://www.youtube.com/watch?v=WoQQlOEnSFI
Le 17 tecniche del randori no kata: https://www.youtube.com/watch?v=Zxa4lSu-UtE
Un esempio di taigi competition: https://www.youtube.com/watch?v=eoE2-9jaD4o