“Do” è la Via, una strada che si percorre a piedi, senza mezzi di trasporto. In anni in cui la corsa è diventata l’attività simbolo della ricerca del benessere, il “Do” richiede invece la pazienza del camminare, un passo dopo l’altro, perché la marcia è lunga e la meta lontana, anzi assolutamente indefinita. Come nella vita. Porsi degli obiettivi è corretto certo, ma è necessario essere consapevoli che possiamo solo sperare di raggiungerli, senza mai averne la ragionevole certezza. Nel frattempo però l’unica cosa di cui possiamo esser certi è che continuare a camminare è un obbligo.
La stessa cosa vale esattamente per l’aikido.
E in tema di cammino e di pezzi di strada percorsi insieme ad altri viandanti, il fine settimana del 1-2 giugno la Via ha portato me e un altro terzo di KNN a Galliate, in provincia di Novara, dove si è tenuto il primo seminario del Maestro Yoshigasaki organizzato dall’associazione sportiva Aikido Hajimé. Trovo sia stato il giusto riconoscimento del nostro Doshu nei confronti di una bella realtà, sia dentro che fuori dal tatami. Quello dell’Aikido Hajimé infatti è un gruppo affiatato e allegro, che non disdegna brindisi e canzoni a cena, ma che mantiene sulla materassina un atteggiamento attento e rigoroso. Un collettivo che dimostra di essere altamente inclusivo nei confronti dei più giovani e capace di coinvolgerli in maniera efficace nelle iniziative del dojo, come ad esempio la lezione con Sensei del sabato pomeriggio dedicata ai più piccoli. Onore al merito quindi al maestro Moreno Maule e ai suoi assistenti (qui la sua intervista di un paio di anni fa dedicata al lavoro con gli aikids).

Le suggestioni lasciate dal Maestro al solito sono state numerose. La prima, quella del “Do”, con la quale ho aperto l’articolo. Ma anche la definizione del concetto di “tradizione”. “Tradizione” è un insieme di elementi che caratterizza un gruppo di persone o un’area geografica e che passa attraverso il tempo perché capace di generare costantemente un risultato di valore per l’umanità. Per realizzare questo risultato però una buona tradizione non rimane cristallizzata o statica, ma deve rigenerarsi continuamente. L’aikido, a differenza di ciò che dicono alcuni, non è un’arte marziale “tradizionale”. È venuta in tempi più recenti e infatti è un “Do” e non un “Jutsu”. Presuppone quindi un cammino di trasformazione e sviluppo, ma affonda le sue origini nella tradizione giapponese e in un certo senso “riprocessa” quelle origini per generare una propria tradizione. Questo diventa particolarmente vero oggi, in un momento storico nel quale l’aikido, con oltre settant’anni di storia alle spalle, ha raggiunto ormai un certo grado di maturità. E su questo fronte credo che la responsabilità di tutti i praticanti più appassionati sia molto forte.
Un’altra riflessione che ha avuto poi ampio spazio è stato è stata quella sull’espressione. Che cosa vuol dire “esprimersi” e come farlo nella pratica? “Esprimersi” è comunicare qualcosa all’esterno in armonia con ciò che sentiamo interiormente. Ma non solo. Questo qualcosa che abbiamo comunicato infatti modifica la realtà e ci offre un feedback che ci trasforma a sua volta, in una dimensione circolare.
Poiché l’aikido non è uno sport le occasioni di esprimersi sono poche: non ci sono gare o esibizioni. Gli aikidoka allora finiscono per esprimersi insegnando, ma…evidentemente non possiamo essere tutti maestri! (Anche se spesso nelle lezioni si vedono percentuali di commissari tecnici che rasentano la quasi totalità delle classi). Il Maestro Tohei quindi aveva proposto la pratica nella vita quotidiana come forma di espressione personale.
In fondo pure scrivere su questo blog è un modo di esprimersi. Sono però convinto che un allievo, pur senza gare ed esibizioni, durante quel paio d’ore che trascorre in palestra possa esprimere sé stesso al meglio. E non facendo il professore a qualcun altro, ma semplicemente praticando in silenzio. Un esercizio e una tecnica dopo l’altra, osservandone e valutandone l’esito.
Nei giorni del seminario si è infine rafforzata in me un’opinione che ho da tempo e cioè che quella del Ki sia una pratica eminentemente “fisica”, utile cioè innanzitutto a imparare come funziona il corpo, a capire come bilanciare naturalmente nei gesti e nelle posizioni efficacia ed efficienza e pure a intercettare con precisione distonie e forzature.
Se l’aikido è l’esercizio della mente che si proietta verso l’esterno, nella relazione con l’altro e con l’ambiente che ci circonda, attraverso la pratica del Ki la mente si rivolge su noi stessi. E poiché non si tratta di un’analisi psicologica in definitiva si rivolge al corpo. Per usare un’espressione di Sensei, è un po’ come “guardarsi dentro casa” e prendere atto di come funzionano le cose al suo interno, di quali stanze sono a posto e quali necessitano di un po’ di pulizia. A quest’ultimo scopo la meditazione rimane lo strumento fondamentale.
Appena chiudiamo gli occhi percepiamo pensieri, sentimenti ed emozioni come tante scie luminose che ci attraversano sovrapponendosi nel buio. Un rumore di fondo indistinto che però col tempo pian piano si acquieta fino al momento in cui in casa non abbiamo “fatto in ordine”. Ovvero non abbiamo preso atto di tutto quello che ci sta dentro e di dove si trova, comprese le cose dimenticate. Che spesso sono anche le più sgradevoli.

Sensei sostiene che la meditazione può provocare un profondo senso di gioia interiore. Provare questa gioia rappresenta un passo importante e indispensabile nella strada della meditazione. Penso di capire a cosa si riferisca: il senso di liberazione che nasce la consapevolezza di essere altro rispetto a sentimenti, pensieri ed emozioni. Personalmente io purtroppo ancora non l’ho provato. Ma sono fiducioso. E nel frattempo continuo a camminare.
“Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi.”
(Italo Calvino)
Un ringraziamento a Marisa Agliata e Francesco Ingemi per le foto.