La scorsa settimana, come ogni estate, ho fatto lezione al parco. Il tema, come spesso avviene nelle lezioni all’aperto, è stata la pratica con jo e bokken. Mentre spiegavo e osservavo le mie compagne eseguire i movimenti del secondo kata di jo con bokken, un po’ di domande hanno iniziato a ronzarmi in testa, in particolare sul significato dello studio dei kata nella nostra scuola. Ed eccole qui.
Che cosa è un kata?
Intendo un kata nel ki-aikido, nella nostra scuola. Un kata è una sequenza di movimenti ordinata o “formalizzata” secondo un determinato criterio. Non a caso, una delle traduzioni più comuni del termine kata è appunto “forma”. Può essere praticato da solo oppure con uno o più partner. Nella nostra scuola vengono eseguiti esclusivamente con le “armi” (jo e bokken).
Qual è lo scopo di un kata?
Lo scopo di un kata è quello di favorire l’apprendimento dei movimenti inclusi nella sequenza, movimenti generalmente applicabili in un contesto “reale” (ad esempio di combattimento o di difesa personale). Per permetterne lo studio, essi vengono strutturati secondo una sorta di “sceneggiatura” che prevede l’alternarsi di situazioni nelle quali i movimenti oggetto dello studio trovano un utilizzo efficace.
Perché non esistono kata senza armi nell’aikido in generale e nel ki-aikido in particolare?
Questa è domanda difficile. A mia notizia, solo la scuola di Tomiki ha un kata senza armi, il randori-no-kata, mutuato dal judo, e finalizzato all’utilizzo delle tecniche che lo compongono all’interno di una competizione sportiva. Ne ho parlato in un precedente articolo. Ed è significativo a mio avviso rilevare che delle 17 tecniche che ne fanno parte, ben 5 sono atemi, ovvero colpi. E non proiezioni o immobilizzazioni.
Certo, in un certo senso, basandosi sulle definizioni precedenti, potremmo dire che anche un tsuzuki waza “a mani nude” (indipendentemente dal fatto che sia praticato con o senza ukemi) ha le stesse caratteristiche di un kata. Si tratta infatti di una sequenza di movimenti preordinati secondo un determinato criterio.
Vi sono però dei distinguo da fare.
L’aikido non ha generalmente un carattere di grande realismo, tanto è vero che quasi tutti i maestri che ho conosciuto operano una netta distinzione tra quanto praticato sul tatami e le eventuali applicazioni in una situazione reale. Ciascuna tecnica di aikido infatti è il risultato della sintesi di più movimenti messi insieme (gli “atti” di cui parla Sensei). Preso singolarmente, ognuno di essi può risultare estremamente efficace, ma una tecnica nel suo complesso è difficilmente riconducibile a una situazione reale o realistica.
Inoltre, rispetto ai kata di jo e bokken, la pratica disarmata tsuzuki waza o kumi waza sfugge pressoché completamente alla logica di “attacco-difesa” o di “attacco-difesa-contrattacco” tipica delle forme con le armi. Lo scopo delle tecniche di aikido infatti è proprio quello di prevenire gli schemi abituali del conflitto e creare una situazione di non-pericolo ovvero di sviluppare nel praticante una propensione fisica e mentale per la gestione di situazioni di pericolo, piuttosto che insegnare movimenti di attacco o difesa specifici.
Credo che sia anche per questo che Sensei ha iniziato a lavorare sulle tecniche di “aikido in vita reale”. Ecco, una sequenza strutturata di questo tipo di tecniche potrebbe essere definita con buona ragione un kata e tra i molti sviluppi che la nostra scuola avrà modo di portare avanti, ritengo che questo sia uno dei più stimolanti e interessanti.
Vale la pena di lavorarci su!