«Bruce, sai perché cadiamo? Per imparare a rialzarci.»
Così un amorevole Thomas Wayne, nelle scene iniziali di Batman begins, consola il piccolo e spaventato figlio Bruce caduto per errore in un pozzo infestato dai pipistrelli.
Nella pratica dell’Aikido colui che riceve le tecniche (e che alla fine generalmente cade) è chiamato uke. Ricevere le tecniche sul proprio corpo (senza però subire danni) è invece chiamato ukemi, che diventa quindi sinonimo di “caduta”. Essa però non dovrebbe mai essere rovinosa o rumorosa, ma silenziose e armoniose. Non necessariamente spettacolare. Mae-ukemi, la caduta avanti, è stata la prima tecnica che ho visto quando sono salito sul tatami per la prima volta. Per me, come per tanti altri principianti prima e dopo di me, è stato amore a prima vista. Potevo imparare a cadere senza farmi male: non un segno di sconfitta, ma una risorsa.
E poi è un meraviglioso esercizio fisico.

Beppe Ruglioni Sensei ricordava sempre che per essere un buon nage (colui che esegue le tecniche) è necessario saper fare bene ukemi. Mentre il Maestro Marco Zaccagnini di Firenze ha sempre sottolineato come praticare ukemi sia un ottimo addestramento a vivere l’attimo, a fare ciò che si deve nel momento senza l’angoscia del “dopo”.
Da anni il Maestro Yoshigasaki ha introdotto l’Aikido “in vita reale” ovvero l’Aikido senza cadute. Pur amandole molto, ho sempre questo studio intrigante e carico di risvolti unici per lo sviluppo della pratica, però, se nella vita reale non è produttivo cercare di far cadere chi ci attacca, nel dojo è fondamentale farlo. E non solo perché una bella caduta è il finale più armonioso che possa avere una tecnica. La caduta è un momento nel quale la mente di chi attacca sicuramente “cambia”, come se colui che va giù si rialzasse poi diverso, trasformato da quest’evento.
Recentemente il Maestro ha però chiaramente detto che pure lo studio di ukemi non deve essere finalizzato esclusivamente alla pratica nel dojo. Alcuni anni fa, ricordo citò l’esempio di un praticante italiano molto capace, il quale aveva deciso di imparare a sciare in età adulta e di essere stato molto aiutato in questa scelta dall’assenza di paura per i rischi derivanti dalle possibili cadute. In conclusione, saper cadere bene scaccia la paura e genera una mentalità che rende disponibili ad apprendere cose nuove e a tuffarsi in nuove situazioni. Mantiene giovani sia fisicamente che mentalmente.
Fabio Valtancoli, uno degli insegnanti del Ki Dojo di Firenze e grande appassionato di montagna, mi ha confermato di aver provato una sensazione analoga durante le arrampicate: una sorta di “familiarità con il volo” sviluppata con l’allenamento di tanti anni che gli ha consentito di riuscire meglio durante le scalate.
Milan Kundera ha scritto: «Chi tende continuamente “verso l’alto” deve aspettarsi prima o poi d’essere colto dalla vertigine. Che cos’è la vertigine? Paura di cadere? Ma allora perché ci prende la vertigine anche su un belvedere fornito di una sicura ringhiera? La vertigine è qualcosa di diverso dalla paura di cadere. La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura.»
Alcuni ritengono che lo scrittore abbia trovato ispirazione nel filosofo Søren Kierkegaard, per il quale le diverse possibilità che la vita pone di fronte all’essere umano sono sì sinonimo di libertà, ma rappresentano pure una grande fonte di incertezza, di angoscia. L’angoscia è la “vertigine” che deriva dalla libertà, dal trovarsi sospesi nello spazio infinito delle possibilità future.
Sarebbe bello, soprattutto di questi tempi, guardare dentro a quella vertigine senza provare l’ansia del giovane Bruce Wayne sull’orlo del pozzo, ma più serenamente, pronti a rialzarsi trasformati, ma senza alcun danno.
© foto in evidenza Pamela Galia