
Diciamocelo, questo 2020 fin qui ci ha preso a calci nelle palle.
Finita, fra mille incertezze, la fase 1 della quarantena è cominciata la fase 2 all’insegna del distanziamento sociale. Nel mio caso questo si è tradotto con un uso intensivo dello “smart working” già da diverse settimane
La difficoltà principale del lavorare da casa in un momento del genere è che malgrado i tuoi migliori sforzi finisci per non staccare praticamente mai.
Le videoconferenze sono diventate una componente costante della quotidianità di molti di noi, le nostre case sono diventate piene di piccoli angoli contingentati da esporre a favore di telecamere per parlare con colleghi, clienti e fornitori. Quando non c’è una call c’è una mail da scrivere o un documento da leggere, praticamente a ciclo continuo e senza vincoli di orario.
Viviamo una sorta di unità teatrale di tempo, luogo e azione in cui il palcoscenico è diventata la nostra casa ed in cui vanno in scena il rapporto con i nostri cari e talvolta anche con noi stessi.
Insomma mantenere un minimo di equilibrio non è semplice.
Allora si cerca di darsi abitudini salutari, come trovare il tempo per fare esercizio fisico, si riscoprono momenti di cui prima non potevamo godere come passare del tempo con i propri figli o più semplicemente si ricercano dei punti fermi a cui aggrapparsi nelle nostre giornate tutte uguali e senza più orari.
Lo sapevano bene tutti quei personaggi, reali o fittizi che hanno vissuto periodi di prigionia o isolamento, da Nelson Mandela al protagonista di “Io sono Leggenda” di Richard Matheson. Costruire la propria routine è fondamentale per una corrette igiene mentale.
Che questo significhi fare dell’esercizio fisico, fare il pane ogni giorno o tenere pulita la propria casa importa veramente poco, l’importante è difendere quei minuscoli, apparentemente insignificanti, centimetri quadrati di Realtà che riusciamo ad influenzare in questo momento.

Mi sono chiesto cosa questo significhi per me in termini di Aikido.
A differenza di Corrado ed Andrea devo confessare che riguardo all’Aikido non sono mai riuscito a fare a meno del tatami o degli altri praticanti, con l’eccezione della respirazione che cerco di fare comunque ogni giorno. Se infatti non ho problemi a fare almeno mezz’ora di workout e una bella sudata tutti i giorni non riuscirei più a chiudermi in una stanza a ripetere 1000 shomen col bokken o a trovarmi in un parco e praticare jo e bokken a due metri di distanza dal mio partner. Non è questo l’Aikido che fa per me.
Certo la pratica da soli è essenziale per il miglioramento ma parlando di pura sensazione fisica, da quel punto di vista so che mi mancherebbe qualcosa. Trovare il tatami dopo un volo di un metro e mezzo o gestire lo spazio di un randori con tre Uke che cercano di prenderti in tutti i modi, col fiato corto e la percezione del tempo che rallenta sono esperienze che trasmettono una fisicità che non può essere semplicemente immaginata, va vissuta.
Com’è il mio Shugyo allora?
Ho avuto l’opportunità in queste settimane di essere coinvolto nella traduzione delle lezioni del Doshu e delle relative domande che gli sono state rivolte dai praticanti sul sito toitsu.dk per la sezione in italiano. Questa iniziativa mi ha permesso di confrontarmi con me stesso su diverse tematiche legate all’Aikido oltre che di approfondire alcuni argomenti specifici con Sensei per poterli meglio comprendere e quindi tradurre. Anche se ogni traduzione è un tradimento, ci tenevo a rendere l’idea originaria nel modo più fedele possibile.
Fra le tante cose interessanti su cui mi sono ritrovato a ragionare ho ritenuto particolarmente illuminante uno degli interventi di Sensei, il cui senso era che l’atto di formulare correttamente una domanda costituisce già di per sé la risposta. Almeno per mia esperienza questa è una enorme verità.
Infatti, a meno di non voler chiedere tutto ciò che ci passa per la testa, è necessario sempre elaborare ciò che pensiamo o ciò di cui dubitiamo. Nel momento in cui un dubbio si forma nella nostra mente è solo materia grezza e come tale va lavorato, pulito e chiarito anzitutto a noi stessi. Se il fine della domanda è arrivare ad una migliore comprensione c’è tanto lavoro da fare prima di buttare la palla nel campo del nostro interlocutore, una cosa che spesso ci dimentichiamo in un periodo che sembra premiare la superficialità in molti campi. In questo caso l’errore è ritenere che la persona a cui poniamo il nostro problema possa risolverlo al posto nostro, beh non può essere così.
Quello che molto spesso accade invece è che dopo aver attraversato faticosamente tutto il processo necessario a formulare una domanda sensata, ci possiamo rispondere tranquillamente da soli. Questo se da una parte richiede un certo sforzo dall’altra ci permette una reale comprensione del problema, oltre ad essere decisamente gratificante.
E’ questo quindi il mio Shugyo, lavorare sulle domande che in questo momento complicato mi affollano la mente ed il cuore fino a farle diventare inutili.
