Sono molto affezionato al Dojo Shiro Saigo di Prato. Ho diversi bei ricordi legati al suo tatami e mi piace pensare che in un’occasione in particolare mi abbia anche portato molta fortuna.
Per questo motivo una decina di giorni fa sono rimasto contento di vedere su Facebook che i pratesi erano tornati a praticare nel dojo e poiché la settimana successiva sapevo che sarei dovuto tornare in Toscana per un paio di giorni ho subito pensato che mi sarebbe piaciuto andare a trovarli.
Il giovedì mattina della partenza però, mentre preparavo la valigia al buio, ho riflettuto che mi faceva una gran fatica prendere dogi, cintura e hakama e così più tardi ho chiamato Mara per dirle che avrei partecipato alla lezione molto volentieri, ma scusandomi anticipatamente perché mi sarei presentato in tuta.
Io credo di essere uno dei pochi che ha comprato il dogi entusiasta dopo la lezione di prova e non ho smesso di praticare pochi mesi dopo aver iniziato. Da quella seconda lezione non sono state molte le occasioni nelle quali sono salito sul tatami “in borghese”.
Perciò l’idea di rientrare in un dojo dopo tanti mesi con un outfit da principiante mi piaceva. Trovavo che avesse il sapore di un nuovo inizio. E un piacevole nuovo inizio è stato, anche se non da principiante, visto che Mara e Piero mi hanno chiesto di fare lezione e gliene sono particolarmente grato. Ho cercato di lavorare sulle cose con le armi che avevo visto negli ultimi seminari e che mi avevano particolarmente colpito. Il lavoro di Buki Waza è immenso e scherzando con Piero ci siamo detti che adesso nessuno si potrà più lamentare del fatto che le armi non si praticano abbastanza spesso!!!
È stata una bella serata, anche se non ho trovato la leggerezza che avrei sperato. Almeno non del tutto.
Se infatti da una parte è stata una gioia tornare sul tatami, dall’altra la sensazione di assenza di “normalità” è stata palpabile. E non mi riferisco alle procedure di sicurezza e igiene che nulla tolgono al piacere di recarsi al dojo, ma anzi rappresentano un valore aggiunto troppo a lungo trascurato. Sono l’impossibilità del contatto con l’altro, la gioia negata di rotolare davvero liberamente sul tappeto, pur se igienizzato prima dell’inizio di ogni lezione. La paura che nulla di tutto questo cambierà a breve, che settembre arriverà e ci troveremo nella medesima condizione di adesso, magari le fila ancora più assottigliate. O che, peggio ancora, potremmo ripartire ed essere improvvisamente chiusi di nuovo.
Una sera durante il lockdown, mentre praticavo le tecniche da solo, mi sono chiesto: «E se non potessimo più allenarci con il contatto? Se come in un film di fantascienza distopico ci trovassimo a studiare le tecniche da soli per anni in attesa del momento in cui potersi toccare di nuovo e quel momento non arrivasse mai o arrivasse troppo tardi? Come il Tenente Drogo del Deserto dei Tartari di Buzzati, che attende tutta la vita un nemico che arriva infine solo quando lui è troppo vecchio per affrontarlo. Ma se la nostra è una pratica di relazione, ha senso un lavoro esclusivamente individuale? Può ancora chiamarsi Aikido? Può ancora chiamarsi Aikido praticare esclusivamente Buki Waza?»

Non ho risposta alle mie domande, ma a Prato ho anche riflettuto che se la tanto abusata parola “resilienza” ha un senso, l’Aikido ne è un formidabile strumento di allenamento.
Il Maestro Yoshigasaki ha detto che è inutile cercare di cambiare il mondo (e – aggiungo io – in generale ha poco senso pure sperare che cambi in meglio da solo), ma che bisogna cercare di rendere bello il mondo nel quale viviamo.
Credo sia inevitabile: ognuno di noi deve impegnarsi al massimo e adottare comportamenti e precauzioni che ci consentano non semplicemente di “tornare presto alla normalità”, ma di mantenere gli spazi che abbiamo faticosamente riconquistato (compreso quello del dojo) e vivere al meglio la situazione nella quale ci troviamo.
L’Aikido ha un potere immaginifico straordinario e può insegnarci molto. Pure se pratichiamo da soli o distanziati con jo e bokken, ci aiuta comunque a leggere la realtà da angolazioni differenti e a non tentare inutilmente di forzarla, ma a cogliere sempre in essa un’opportunità di armonia e una possibilità di bellezza.
Sul tatami come nella vita di tutti i giorni.
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