E così abbiamo dovuto chiudere di nuovo.
Qualche giorno fa Paolo ha condiviso nuovamente su Facebook la foto dell’ultimo seminario tenutosi al al Ki Dojo, ormai – ahimé – due anni fa, scrivendo giustamente che “siamo e saremo tutti chiamati a cercare nuove vie sia dentro che fuori dal tatami. Anche questo, anzi soprattutto questo, è Dō.”
Volendo quindi provare a leggere in positivo il complicato momento che stiamo attraversando, quale migliore occasione per sviluppare Hitoriwaza?
“Hitoriwaza” vuol dire pratica da soli. In altre arti marziali, come il Karate, il Tai Chi o la Capoeira, l’allenamento inizia appunto eseguendo una forma da soli. Nell’Aikido avviene l’esatto contrario: si inizia da subito praticando in coppia. Questa caratteristica rappresenta un elemento di indubbia complessità, ma anche una sfida appassionante per un principiante. Le altre scuole di Aikido, a mia notizia, non praticano Hitoriwaza. Da soli praticano l’Aiki Taiso e i kata con le armi, ma non eseguono le tecniche senza Ukemi.
Stando a quanto ha scritto il Maestro Yoshigasaki, è stato Tohei Sensei il primo (e forse l’unico) a introdurre questa modalità di studio.
Personalmente pratico da solo da almeno una ventina d’anni, mi è sempre piaciuto farlo. Quando ero più giovane mi dava l’impressione di fare i compiti a casa. Inoltre, tra la fine degli anni ‘90 e i primi anni zero il Maestro Yoshigasaki fece uscire una serie di cinque videocassette dal titolo “All of Aikido”. Oggi sono disponibili su YouTube ed è interessante guardarli perché fotografano un momento particolare nella vita e nell’esperienza di insegnamento del Doshu: la fine della sua storia nella Ki Society e l’inizio di un nuovo percorso, del quale traspaiono, più o meno in embrione svariati elementi. A partire dal secondo volume Sensei mostra diversi Hitoriwaza; ne fui subito entusiasta: avevo finalmente una “forma certa” da poter replicare. Per molto tempo quindi mi sono dedicato a ripetere con attenzione i movimenti del Maestro davanti alla televisione accesa.

Beppe mi ha sempre preso in giro per questa mia abitudine di praticare da solo. Una volta che era arrabbiato con me mi ha anche detto che io praticavo da solo anche quando ero insieme a Ukemi. Non aveva torto e capivo che cosa intendesse dirmi, ma allo stesso tempo rimasi ferito. In fondo io volevo solo imparare. Il punto è che Hitoriwaza non è una mera forma a cui “appiccicare” successivamente Uke, come in una sorta di sovrapposizione di sequenze filmate.
Tre anni fa, quando è nato mio figlio la frequenza del Dojo si è giocoforza ridotta e ho ripreso allora a praticare Hitoriwaza a casa, studiando sia Nage che Ukemi. I risultati mi sono sembrati validi e quindi ho continuato.
Quest’anno infine, con l’arrivo del Lockdown e la chiusura delle palestre, ci ho messo ancora maggior impegno e decisione. Pur con molti dubbi. In un’arte come la nostra, che si definisce “di relazione”, ha senso una pratica solitaria? E poi: è sensato allenarsi da soli al mero scopo di essere “pronti” in cui si tornerà a poterlo fare con il contatto? E se quel momento non dovesse arrivare mai?
Oggi, dopo quasi sei mesi, posso dire di essere convinto che sì, Hitoriwaza è sicuramente e completamente Aikido. È un lavoro che richiede grande rigore, ma che ripaga con ottimi benefici.
In particolare, se si ha già una certa esperienza della pratica con Ukemi, richiede e sviluppa una buona immaginazione.
In una delle sue Lectures di questa primavera, il Doshu ha scritto che “al fine di praticare una tecnica, normalmente la si applica a Uke. Il rischio però è quello di tendere a reagire al comportamento di Uke e quindi di non riuscire a guidarlo correttamente. Questo è il motivo per cui è difficile sviluppare una tecnica di Aikido corretta. Allo scopo di guidare Uke, è necessario durante la tecnica immaginare costantemente un secondo più avanti. Il modo più semplice di farlo è eseguire la tecnica da soli, immaginando un Uke.”
Curiosamente, praticando da solo, in questi mesi mi sono reso conto che spesso l’immaginazione che avevo di alcune tecniche era falsa o parziale, anche se facendo con Ukemi quest’ultimo cadeva e quindi avrebbe dovuto fornirmi una riprova corretta della mia esecuzione.
Hitoriwaza non consiste infatti semplicemente nell’imitare più o meno quanto si fa insieme a Uke, ma nell’immaginarlo il più correttamente possibile, chiedendosi continuamente (un secondo dopo l’altro appunto): “perché faccio questo?” “E dopo quest’altro?”
L’esito è la creazione di un nuovo gesto, simile a quello praticato con Uke, ma diverso.
Nel definire questo gesto è opportuno fare dei movimenti e degli spostamenti assai ampi, come pensando di avere a che fare con un Ukemi enorme. Il risultato è un ottimo esercizio fisico, capace di migliorare postura e coordinazione. (Non mi soffermo volutamente sulla pratica solitaria di Ukemi, che richiede un discorso diverso.)
Rispetto invece al tema della mancata relazione con il compagno, conviene ricordare che una delle traduzioni che abbiamo dato al termine Aikido è “la Via dell’unificazione con il Ki dell’universo”. Trovo che non sia necessariamente detto che questa unificazione passi dalla relazione con altre persone, ma si può – anche forse più efficacemente – ricercarla nel rapporto con sé stessi e con lo spazio che ci circonda.
In queste settimane di rinnovata chiusura suggerisco a tutti di provare. Praticare Hitoriwaza in uno spazio aperto e ampio come un parco o in montagna è estremamente gratificante. Certo, non mi auguro di fare Hitoriwaza per mesi o anche peggio! Ma in questi tempi strani che abbiamo iniziato a vivere trovo che sia un altro tassello del nostro mosaico da sviluppare. E forse, come avviene appunto ad esempio nel Tai Chi, un’opportunità bella e interessante di pratica anche nei confronti dei principianti che vogliono approcciarsi all’Aikido in tristi periodi in cui il contatto è vietato.